Intervista a Luca Masperone: la musica tra rock e cantautorato

Luca Masperone racconta in questa intervista il suo ultimo lavoro Giochi di Maschera e la sua vita artistica tra la tradizione del cantautorato e il classico rock.

Classe 1983, il cantautore e chitarrista ligure Luca Masperone alterna l’attività musicale e artistica con quella di giornalista per la rivista Strumenti Musicali, di autore per diverse case editrici e di professionista nel campo della comunicazione d’impresa. Autore a 360 gradi, Luca Masperone spazia dalla musica alla radio, dalla poesia alla prosa ed è inoltre il chitarrista solista del trio Clark Kent Phone Booth, già due volte nelle Top Ten di vendita su iTunes.

Dopo moltissime collaborazioni e concerti con artisti vari, tra cui Markus Stockhausen, Pietro Nobile, Flavio Oreglio, Ale e Franz, Luca Masperone ha realizzato il suo primo album da solista Giochi di Maschera uscito lo scorso maggio.

In occasione della presentazione del disco, abbiamo scambiato qualche parole con il cantautore che ci ha raccontato la sua vita artistica tra cantautorato italiano e rock classico.

Ciao Luca, innanzitutto benvenuto su Cube Magazine. Lo scorso maggio è uscito Giochi di Maschera, tuo primo progetto musicale da solista. Parlaci un po’ dell’album. Com’è nato?Ciao Annalisa, grazie mille per l’ospitalità. Giochi di Maschera nasce dall’incontro tra la mia passione per il cantautorato e quella per il rock, specialmente anni ’70 e fine ’60. Fondere le due cose mi è sembrato naturale, così ho lavorato per trovare un punto di incontro e dare una veste adatta ai brani dell’album.

Come mai hai scelto il titolo Giochi di Maschera?
Perché tutti i brani del disco sono dei “giochi di maschera” nei quali mi immedesimo in diversi personaggi, situazioni, storie, cercando di descrivere con parole e musica idee e sentimenti differenti, il tutto ovviamente filtrato attraverso la mia sensibilità.

Nonostante la tua giovanissima età, Giochi di Maschera ha fortissimi richiami al cantautorato italiano e al rock inglese degli anni ’70. Quali sono stati i musicisti e cantautori che hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?
Senz’altro Giorgio Gaber, a cui è dedicato il brano che dà il titolo all’album, un pezzo che segue il filone del teatro canzone, mettendo la musica al servizio della storia ironica di un uomo nudo e delle sue differenti maschere. Credo però di aver imparato qualcosa da ogni grande cantautore, da Tenco a Fossati, da Guccini a Niccolò Fabi. Per quel che riguarda il rock potrei citarti mille ascolti e influenze, non solo anni ’70 e non solo inglesi: dal rock blues di artisti come Eric Clapton e Jeff Beck a band come Pink Floyd, Queen e Dire Straits, fino a Frank Zappa, senza contare l’intera scena del progressive rock. Insomma sono onnivoro per quanto riguarda gli ascolti!

ACQUISTA GIOCHI DI MASCHERA SU AMAZON

C’è una canzone di Giochi di Maschera a cui sei particolarmente legato? E perché?Sembrerà banale, ma direi a tutte, anche perché dei quasi trenta pezzi che avevo preso in considerazione per l’album, alla fine ne ho selezionati solo otto, quindi mi sento legato a tutto il materiale presente nel CD.

A chiusura del disco troviamo il brano Tenco, dedicato al compianto Luigi Tenco. Come mai la scelta di questa canzone? Cosa rappresenta per te questo grande cantautore italiano?
Il brano Tenco è in qualche modo la molla che mi ha fatto venire in mente l’idea di tutto il progetto, il primo “gioco di maschera” dell’album. Racconta la storia di Luigi, parlando anche in prima persona e descrivendo in particolare la notte del 1967 in cui si tolse la vita. La struttura del brano è particolare, un pelo progressive, ma senza esagerare. Accompagna l’ascoltatore nel racconto utilizzando diverse suggestioni e ricreando immagini per rafforzare o contrastare il testo. Luigi Tenco per me rappresenta l’artista puro che non scende a compromessi, non importa quanto alta sia la posta in gioco. Tenco era uno sperimentatore, osava molto nei testi ed era anche un musicista, suonava il sassofono, il pianoforte e la chitarra, amava il jazz e il rock’n’roll. La sua sfortuna è stata quella di morire prima del ’68: secondo me negli anni successivi avrebbe trovato la sua collocazione, come è successo a tanti suoi colleghi cantautori.

Durante la tua carriera nel mondo della musica, hai avuto la possibilità di condividere il palco con moltissimi artisti. Con quale autore o cantante ti piacerebbe collaborare, sia nella scena italiana che internazionale?
Mi sarebbe piaciuto davvero condividere il palco con il re del blues B.B. King, ma ormai temo sia tardi, essendo il maestro mancato proprio quest’anno… adoravo il suo modo di cantare e di suonare la chitarra che ha influenzato generazioni di artisti blues e rock. Quindi ti direi Björk, un’artista davvero originale ed emotiva, rivoluzionaria per quel che riguarda interpretazione, arrangiamenti e scrittura. In Italia invece i primi nomi che mi vengono in mente sono Caparezza e Immanuel Casto, ma ce ne sarebbero molti altri.

Hai viaggiato molto, ricordiamo la tua ultima tournée americana. Che differenze trovi nel modo di vivere la musica in Italia rispetto ad altri paesi?
Penso che il problema dell’Italia in questo caso sia la mancanza di una cultura musicale, e di conseguenza il non adeguato rispetto per gli artisti e per la loro storia. Se vai in America, in ogni casa trovi una chitarra, anche quando non c’è nessuno in famiglia che suoni seriamente. Il pubblico americano non ama le cover e nei locali i musicisti sono incoraggiati a suonare la propria musica e vengono ascoltati con interesse anche se sono ancora degli sconosciuti. Ma anche in molti paesi europei la situazione è migliore: ad esempio un qualsiasi cantante irlandese, magari rock o pop, conosce le radici della musica folk della propria terra ed è in grado di eseguire alla perfezione canzoni tradizionali, non importa se poi di mestiere fa musica differente. Da noi in quasi tutta la penisola manca la conoscenza delle radici e il rispetto in generale per la musica come arte con la A maiuscola, e questo è un peccato perché, come scriveva Nietzsche, “La vita senza la musica sarebbe un errore”.

Da cosa trai ispirazione quando scrivi le tue canzoni?
Da un pensiero da comunicare o da un’emozione da trasmettere. A volte l’idea di base nasce sotto forma di musica, altre volte di testo. Se nasce prima la musica, mi lascio ispirare da lei per trovare le parole. Quando nasce prima il testo, scrivo la musica per assecondarlo, ampliarlo o per creare una funzione di contrasto.

Molto spesso incontriamo nelle classifiche molti interpreti e pochi cantautori. Quanto è importante per te il contatto con gli strumenti musicali e le melodie per chi vuole fare questo mestiere?
Per me rimane fondamentale: mi rendo conto, dal punto di vista dell’industria discografica, che un interprete sia più facile da gestire perché canta quello che gli dai da cantare e non ti rompe le scatole con pretese artistiche, musicali o intellettuali. Ma la stragrande maggioranza dei migliori artisti della musica internazionale sono sempre stati almeno in parte autori e artefici della propria arte e del proprio suono, questo è un dato di fatto incontrovertibile. Pensate se qualcuno avesse vietato ai Beatles di sperimentare e quindi di arrivare ai loro grandi capolavori del ’66, ’67 e ’68 Revolver, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e The White Album. O se Bohemian Rhapsody dei Queen non fosse mai stata registrata perché aveva una struttura troppo strana, lunga e avventurosa o ancora se i Metallica non fossero mai stati pubblicati perché “ehi ragazzi, i vostri brani durano troppo, cos’è questo pezzo, Master of Puppets? Ma dura più di 8 minuti!”. Credo invece che oggi tanti bravi artisti vengano frenati in questo modo.

In un momento in cui, almeno in Italia, la scena musicale è dominata dai ragazzi usciti dai talent show, cosa ne pensi di questi programmi televisivi?
Penso che di talento ce ne sia parecchio, a livello di tecnica vocale i concorrenti sono quasi tutti bravissimi. Però seguendo quello che dicevo prima, si tratta di programmi in cui si cantano cover, si testano ragazzi e ragazze per trovare voci pop a cui affidare brani scritti a tavolino. Non ci sarebbe niente di male, se poi esistessero alternative e altri sbocchi per diverse forme di musica. Il problema è che non ce ne sono. Una sera a The Voice, Noemi ha detto una cosa verissima, parlando a un ragazzo e riferendosi agli altri coach Piero Pelù, J-Ax e Roby Facchinetti. Ha detto: “Vieni con me che provengo da un percorso simile al tuo, perché i percorsi fatti dai miei colleghi non esistono più”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Porterai in tour Giochi di Maschera?
Sì, fin dai primi giorni della sua uscita sto portando Giochi di Maschera in giro per l’Italia attraverso concerti ed eventi. Inoltre è uscito il videoclip del singolo Chi ci crede, girato nel Ponente ligure in una location molto particolare scelta dal produttore del video Eugenio Ripepi, dal regista Andrea Languasco e dal direttore della fotografia Fabio Zenoardo, che si sono ispirati al film Blade Runner di Ridley Scott. È stata coinvolta anche la giovanissima ballerina di danza classica Margherita De Pieri, che per l’occasione si è ispirata proprio alle movenze dell’attrice Daryl Hannah in Blade Runner. Il video è trasmesso da Mediaset TGCOM24 ma si può trovare anche su YouTube (vedi a fondo articolo)

https://www.youtube.com/watch?v=XjgphcDQTK8

This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish. Accept Read More